Liberazione - 08/08/1996
Lasciate
libera la parola, raccontate una storia
di Checchino Antonini
Sembra un vecchio cinema di terza
visione ma e' uno studio a due passi da San Pietro. E' appena terminata la
registrazione del nuovo disco di Claudio Lolli, il decimo di una carriera
iniziata ventitré anni fa. Nei pochi metri quadrati della regia siamo stipati
in quattordici. Mentre ascoltiamo il lavoro finito, l'arrangiatore Diego
Michelon e gli altri mimano gli strumenti, si sorridono o si concentrano a occhi
chiusi su questi dieci pezzi che ormai conoscono a memoria. In fondo c'e'
Claudio Lolli, quarantasei anni, insegnante di italiano e latino in un liceo
scientifico vicino Bologna. Per adesso il disco s'intitola "Canzoni senza
musica" e nasce da un riascolto di Piero Ciampi, il cantante livornese
scomparso, la quale Lolli e' molto legato.
- Ma l'atmosfera in questa sala non sembra quella che descrivi nel brano, non
c'e' l'indifferenza tra autore e i professionisti.
E' vero c'e' un'aria diversa ma il problema e' tra la voce parlante e
l'industria, tra il desiderio di dire e l'ambiente in cui la parola viene presa:
ecco, Ciampi e' riuscito a non farsi prendere.
- Come hai incontrato la Tide, l'etichetta indipendente romana che produce
anche gli EZezi e gli Handala?
E' stato lungo e laborioso, venuto fuori da un rifiuto delle major. Quello che
sto facendo in questo momento e' proprio incompatibile con l'industria musicale
in Italia. Alcune delle mie produzioni precedenti erano brutte anche perché la
casa discografica ti mette a disposizione arrangiatori e musicisti che non
conosci e che tentano di standardizzare tutto. Credo che il mio ultimo disco la
Emi lo abbia fatto per scaricare l'Iva. Qui invece ho a che fare con delle
persone che credono nelle cose che faccio e nel lavoro che fanno loro.
- E il tuo rapporto con il pubblico come e' cambiato?
Per un periodo sono stato durissimo: era appena uscito "Extranei"
(1981), un album abbastanza complicato cantato tutto d'un fiato nei concerti per
quasi un'ora. Se mi chiedevano "Michel" o cose del genere, non le
cantavo: un concerto non doveva essere un rito consolatorio ma inquietante. Oggi
penso che la ritualità sia qualcosa di più profondo: ne abbiamo bisogno per
cementare il senso dell'essere insieme.
- Non e' la prima volta che lavori con persone al di fuori della musica come
lo scrittore Gianni D'Elia.
Fondamentale per questo disco e' valorizzare le parole. Gran parte delle canzoni
che senti in giro sono sacrificate ad una confezione piacevole, ammaliante,
intrigante. Invece non si dovrebbe rinunciare alla capacità liberatoria della
parola.
- Che rapporto c'e' tra le tue canzoni e l'attualità'?
Bisogna raccontare delle storie. Difficilmente riesco a spiegarmi quello che sta
succedendo con gli strumenti della razionalità ma probabilmente il cuore e'
gia' oltre l'ostacolo. E allora ciò che riesce almeno a intravederlo da lontano
e' il gioco della parola. Le storie nella loro libertà fantastica sono sempre
un po' piu' avanti.
- Frequenti la società degli artisti comunisti e le feste di Liberazione.
Eppure, se capita l'occasione, marchi sempre la tua distanza.
Con questi musicisti ho un rapporto ottimo. I rapporti personali non sono così
piatti, non ci si riconosce solo nell'identità' politica. Riconoscersi in
un'identità' e' uno dei problemi che non esiste... poi si arriva alle guerre.
- Forse e' il momento di perdersi un po'? dell'Europa di oggi: regredire
fino a che non si trova un'identità'. La perdita c'e' già stata, il problema
e' accettarla. E' chiaro che l'occidente vive un momento di straordinaria
perdita d'identità'.
- Qual'e' l'idea di "Curva Sud", uno dei pezzi più intensi
dell'album?
La curva sud e' il posto dei coatti, dei fanatici, di quelli che interpretano il
calcio e la vita in termini militari. Oggi l'Italia e' diventata una specie di
stadio.